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05/09/2019

LINA, LA MANAGER DEL VINO: UNA LUNGA STORIA DI FAMIGLIA

Nello stile di un’eleganza sobria e naturale, il volto di Lina De Toma si illumina quando si accenna alle origini della sua famiglia, quella Puglia mai troppo lontana, ed altrettanto s’illumina quando si parla di Lodi, dove i De Toma hanno realizzato un vero e proprio impero del commercio dei vini migliori. Lina De Toma è una donna dai modi miti, ma dalle grandi doti manageriali, un’imprenditrice con le qualità essenziali di chi opera nei mercati: fiuto e coraggio.

Gentilissima Lina, chi fu il primo De Toma ad avviare l’impresa di famiglia? «Il nonno Bartolomeo, che era originario di Trani. Non so le ragioni per cui scelse di stabilirsi a Lodi, ma qui aprì il suo emporio, in corso Roma, dove oggi è ubicata un’importante gastronomia». Ricorda l’anno di fondazione? «C’è una foto di famiglia, che ritrae il nonno con i figli davanti all’emporio, ed è datata 1908. Il negozio, all’epoca, non era particolarmente grande: fondamentalmente vi si accedeva per bere, perché lì si realizzava direttamente la mescita dei vini, ma la clientela veniva anche per giocare a carte». Fu il nonno ad espandere l’esercizio commerciale? «No, furono i tre figli maschi: il nonno morì che mio padre aveva soltanto tredici anni, e i ragazzi a poco a poco, crescendo, ampliarono l’attività». Come si chiamavano? «Leonardo, Francesco e mio padre Nicola. All’inizio i tre fratelli proseguirono comunemente. Mio padre era forse quello dotato di maggiore spirito di iniziativa, poi ciascuno prese il proprio autonomo percorso». Si divisero in armonia? «Sì, la nostra era una famiglia con i valori del Sud: molto unita. I tre fratelli andavano sempre in meridione per scegliere i vini migliori: con i treni arrivava una quantità impressionante di damigiane»

Che scelte fecero, allorché si divisero? «Nel negozio di corso Roma, che fu operativo sino al 1964, rimase mio zio Francesco. Lo zio Leonardo invece aprì un suo emporio in via Incoronata. Papà, nel 1922, si spostò qui dove oggi è la nostra enoteca, in corso Vittorio Emanuele». Che tipo era suo padre? «Un uomo pieno di idee. Ad esempio, lui oltre al negozio valorizzava tanto anche la distribuzione: ogni sabato si metteva alla guida di un camion e portava il vino nelle cascine, sino alle campagne più remote. Aveva fatto la guerra del ’15/ ’18 ed era stato arruolato nei carristi: sdrammatizzando, diceva così che quell’esperienza gli era servita anche per fare l’autotrasportatore». Qualche dato anagrafico sul papà? «Era nato nel 1896 e aveva sposato Carmina Pamieri; il percorso di mia madre era stato simile a quello del papà: nata anche lei a Trani, era arrivata da piccolina a Milano, ed anche i suoi genitori, cioè i miei nonni, avevano un emporio vinicolo. Noi eravamo tre figli: Isabella, che era nata nel 1924, poi Bartolomeo, che era del 1927, e quasi dieci anni dopo arrivai io». Mamma Carmina, dunque, era attiva anche nell’attività vinicola… «Sì, stava in negozio; d’altra parte era la classica donna meridionale, obbediente al marito. Inoltre, poiché qui c’era anche una cucina, avevamo una cuoca: si chiamava Anna. E poi c’era pure un cantiniere di fiducia: Alfredo Cornalba, era arrivato da noi che aveva 14 anni e rimase sino alla pensione, un grande lavoratore, serio ed onesto».

Tutt’e tre figli aiutaste in enoteca? «Mia sorella Isabella, in realtà, si dedicò alla propria famiglia. Mio fratello Bartolomeo, invece, affiancò subito il papà: lui si occupava del magazzino. Completati i miei studi, anch’io presi a lavorare nell’esercizio di famiglia. Però, vede, mio fratello per me, malgrado la sua ritrosia ad esporsi, è stato fondamentale: se le cose andavano bene o male, quando occorreva cambiare il tiro, lo capivo da un suo sguardo, non c’era neppure necessità di parole». Ricorda quale fu il suo primo compito? «Avevamo avviato più punti vendita e papà mi chiese di controllare se ai diversi gerenti mancasse qualcosa, o se viceversa i negozi avevano tutto il necessario». Intanto la vostra enoteca si affermava sempre più nel cuore della città… «Devo dire che negli anni Settanta io avvertii la necessità di una svolta. Un’importante azienda aveva promosso una crociera sul Mediterraneo per i propri clienti e così venni a contatto con tanti commercianti vinicoli di Milano: in quell’occasione compresi come lì fossero avanti e noi invece indietro. Presi a fare autocritica e a realizzare scelte nuove». Ad esempio? «L’importazione dei vini meridionali era una strategia dettata dal cuore, ma da sola non pagava più. Cominciai a cercare altre soluzioni, guardando alla nicchia dei vini pregiati: c’era stato il boom economico e la gente era disposta a spendere. Poi nel 1980 trasformammo il negozio, rendendolo più gradevole ed accogliente, quello che è oggi. Sa chi, sotto il profilo logistico, mi diede lo spunto per rivoluzione tutto?»

No, chi? «Giampiero Marini, il campione del mondo della Nazionale italiana. Aveva aperto un negozio sportivo di straordinaria bellezza ed io mi feci consigliare da lui il suo architetto». Chi altri contribuì, relativamente alle scelte di mercato, a quella autocritica alla quale mi accennava? «Posso farle alcuni nomi illustri, gente che nell’ambiente del vino è conosciuta a livello internazionale; come Luisa Ronchi ed i fratelli Solci. Lo stesso Meregalli di Monza; e Piccinardi, un giornalista che creò l’associazione delle Enoteche italiane, “Vinarius”, e di cui io stessa fui una fondatrice; e poi Lunelli, contitolare della Ferrari spumante. Avere con loro questi confronti mi illuminò». Lei il vino si limita ad osservarlo da lontano? «No, perché mai? Personalmente, mi piacciono molto le bollicine. Ma bere significa anche altre due cose: accompagnarvi buoni cibi e prediligere le giuste compagnie. Il vino unisce, se lo ricordi».

L’enoteca De Toma ha in effetti una clientela che nel tempo è rimasta sempre fedele… «Abbiamo tanta gente che ci ha sempre apprezzato, è vero. In particolare, vorrei ricordare un nostro affezionato cliente, posso pure dire un amico di famiglia, scomparso di recente: l’avvocato Olivo Rinaldi, un uomo di grande personalità, dalla battuta sempre sagace ed appropriata». Con tante amicizie meneghine, non ha mai pensato di trasferire lì la sua attività? «No, a me Lodi piace molto, anche se certo vorrei che fosse più vivace nelle iniziative. C’è di buono che qui i legami si rinsaldano, sono destinati a durare: è forte il senso della comunità. A Milano tutto sarebbe stato più dispersivo».

A fianco, nella società, ha due nipoti, Nichi e Sabrina, i figli di Bartolomeo… «Nel 1990, quando mio fratello Bartolomeo si ammalò, Nichi lasciò il posto che occupava in banca e venne immediatamente in negozio. Sono due bravissimi ragazzi, diversi tra loro: Nichi vede sempre il bicchiere mezzo pieno, un ottimista per natura, mentre Sabrina è più prudente. Un ottimo modo per trovare la giusta compensazione, non le pare?» Mi dice qual è il segreto più vero del vostro successo? «Nessun segreto, mi creda. L’esperienza però è importante. Se il nonno fondatore diede un buon consiglio, ecco, sono sicuro che non è andato disperso: sugli scaffali, fra le tante bottiglie, quel suggerimento, lo si trova ancora».